lunedì 14 luglio 2014

Parere pro veritate del Prof. Paolo Cendon sui diritti del caregiver familiare

Il giusto riconoscimento al ruolo del care giver
di Paolo Cendon, Guendalina Scozzafava, Stefano Rossi


Chi sono i caregivers ?

Nell'assetto italiano dal secondo dopoguerra l'intervento pubblico ha sempre rivestito un ruolo secondario rispetto alla centralità assegnata alla famiglia.
L'assunto delle politiche sociali ha infatti attribuito alle reti famigliari una competenza autonoma nella gestione delle fragilità interne al nucleo secondo una rigida suddivisione dei compiti di cura organizzati su una differenziazione di genere, dando vita, talvolta, a quel fenomeno del “familismo ambivalente” che per Chiara Saraceno sta ad indicare l'insistente affermazione del principio di rilevanza della famiglia alla quale però ha fatto seguito una delega di compiti privi di supporti sostanziali.
L'attuale condizione socio economica del nostro Paese comporta un'attivazione sempre più importante del cosiddetto welfare delle responsabilità condivise chiamando la comunità intera a fornire risposte ai bisogni espressi congiuntamente con i servizi socio sanitari territoriali.
L'importante cambiamento a cui stiamo infatti assistendo muove sempre più verso la partecipazione dei cittadini attraverso forme di auto cura, cure a domicilio e interventi di auto mutuo aiuto.
L'enfatizzazione posta sul rafforzamento delle cure domiciliari attraverso servizi assistenziali socio sanitari integrati, ma anche per mezzo delle nuove formule di ospedalizzazione domiciliare, investono di nuovi ruoli l'intero sistema famigliare talvolta chiamato a fornire un'assistenza intensa e primaria.
La logica de istituzionalizzante avviata alla fine degli anni '70 allo scopo di favorire la reintegrazione della persona nel suo contesto di vita, ha obbligato le politiche sociali a ripensare la cura dell'anziano, del disabile, del malato di mente in un'ottica di Community Care con il coinvolgimento sia delle reti formali (settore pubblico e privato profit) che informali ( terzo settore, gruppi di auto mutuo aiuto, advocacy).
La nuova impostazione del welfare italiano porta ad un inevitabile ripensamento delle reti primarie, il care giver assume un nuovo ruolo, nuove funzioni e responsabilità divenendo soggetto attivo di una inedita e più ampia rete dei servizi integrati, basata su interventi con approccio relazionale, multisettoriale e volti a garantire il più elevato livello di integrazione.
Il baricentro del tradizionale centro di cura si sposta sul territorio e sulle sue risorse informali, ma soprattutto famigliari chiamati a partecipare attivamente alle risposte da offrire ad una popolazione in costante invecchiamento e con patologie invalidanti cronico-degenerative in linea con l'avanzamento della ricerca medica.
L'enfatizzazione dell'Home Care si fonda sul ruolo del care givers, ovvero coloro che prestano aiuto in modalità informale – a livello famigliare o amicale – o formale – a livello istituzionale attraverso una serie di processi assistenziali forniti ad un soggetto che necessita di cure.
Sul tema numerose ricerche sono state condotte, rilevando che “la famiglia è il più importante contesto entro il quale la malattia si presenta ed è risolta” (“G.Giarelli, E.Venneri, Sociologia della salute e della medicina, Franco Angeli, Milano, 2009, pag. 357)
Nel nostro paese il caregiver è prevalentemente donna, con una percentuale che supera l’80% nella fase severa di malattia, confermando l’eterno ruolo femminile di dispensatrice di cure.
I tempi della cura sono mediamente di 7 ore di assistenza diretta e di 11 ore di sorveglianza, che diventano rispettivamente di 10 e di 15 ore, con l’aggravarsi della malattia. Di contro il tempo libero è mediamente di 15 ore la settimana nelle fasi iniziali e di 4 ore delle fasi più avanzate. Le forme di aiuto che il caregiver riceve da altri familiari o da personale a pagamento servono nel 36,5% dei casi per la sorveglianza e nel 45,9% per le cure igieniche.
costi, sia come spese dirette che indirette (spesso il caregiver lascia il lavoro o sceglie un’attività part-time) sono rilevanti, così come l’impatto sulla salute e sulle condizioni psicologiche e relazionali, che comporta l’uso di ansiolitici ed antidepressivi ( A. Tognetti, Le problematiche del caregiver, in Gior. Gerontol, 2004, 52, 505)
Ne consegue l’immagine di una situazione in cui gli equilibri personali e relazionali preesistenti sono fortemente provati dall’insorgenza e dal decorso della malattia, che mettono a dura prova le capacità di condivisione e coesione del sistema di appartenenza.
Ma in realtà, al di là di un quadro generale, esistono tanti tipi di caregivers differenti tra loro: si diventa caregiver per scelta, per necessità o per designazione familiare, quando la condizione personale o relazionale non lascia spazio ad altre possibilità. Le condizioni del malato e quelle personali, di salute o socio-ambientali influenzano necessariamente lo stile e la qualità del caregiving.
In questi termini si possono individuare alcune tipologie di caregivers. I più a rischio di burn out sono quelli definiti “logorati” e “dedicati”, complessivamente più del 50% del campione, prevalentemente donne al di sopra dei 60 anni di età, che assistono a tempo pieno il coniuge ormai in fase avanzata di malattia, non hanno aiuto di alcun genere, hanno scarse relazioni sociali, qualche situazione conflittuale in famiglia, problemi di salute e sono psicologicamente molto provate. Un’altra categoria è quella delle figlie multiruolo (19,1%), impegnate su più fronti oltre che nell’assistenza al malato, con il quale in genere non convivono. Si sentono stanche, sovraccariche di responsabilità e il loro impegno costante ha una ricaduta negativa prevalentemente sul piano psicologico e delle relazioni sociali.
I neo-caregiver e i caregiver supportati rappresentano invece i familiari che ancora si occupano della sorveglianza di un malato relativamente autonomo, quindi senza grossi cambiamenti nello stile di vita.
Di tale condizione, sempre più diffusa in una società che invecchia e in cui la disabilità viene riconosciuta e protetta, il diritto deve prendere atto attraverso strumenti che ne valorizzino le potenzialità espansive
Le nuove forme di strutturazione della società sia da un punto di vista sociale, che culturale che economico hanno inevitabilmente avuto delle ricadute sul sistema home care. Si pensi infatti al disfacimento della famiglia come tradizionalmente intesa, con un incremento delle separazioni, la riduzione delle natalità e l'inversione delle piramidi parentali, nonché l'ormai consolidato inserimento della donna – da sempre principale detentrice dell'onere della cura- nel mondo del lavoro, tutti fattori che rendono più difficoltoso l'espletamento del care giving.
Elementi che devono inevitabilmente essere tenuti in considerazione e debitamente supportati onde evitare l'effetto “costrettezza” (restrictedness) di cui parlano Twigg e Atkin a indicare come il sentirsi responsabile della cura di una persona possa portate ad una riduzione della qualità della vita generale del care giver attraverso forti limitazione per la sua libertà di vita, sensazioni di ansia e inquietudine, costrettezza condivisa e secondaria.

Contestualizzare il ruolo del car giver tra principi costituzionali e ruolo del Welfare

Che cos’è la care? Il termine inglese rimanda ad una molteplicità significati: dalla care come preoccupazione e sollecitudine verso l’altro alla care come prendersi cura dell’altro. Ognuna di queste possibili traduzioni descrive aspetti diversi della care e rinvia ad una relazione di minore o maggiore prossimità fisica con l’altro: dalla disposizione mentale all’attenzione verso l’altro fino alle concrete attività del prestare cura (B. Casalini, Etica della cura, dipendenza, disabilità, in www.iaphitalia.org)
Se si tiene conto di tale contesto relazionale, il cargiver è innanzitutto una persona, non può essere reificato rendendolo asettico strumento del Welfare, né può essere monetizzato quasi fosse un surrogato dei voucher socio-sanitari.
È persona che si fa carico degli aspetti più faticosi del ‘mestiere di vivere’(Dall’omonimo libro di Cesare Pavese), divenendo il centro di una rete di relazioni d’affetto, di assistenza e di cura capaci di avvolgere e proteggere il soggetto ‘fragile’ che ad essa di è affidato.
È considerando questa condizione di vulnerabilità, propria della natura umana, che si può comprendere il ruolo svolto dal caregiver, un ruolo flessibile come la condizione della persona a cui viene prestata assistenza, che appare ‘dipendente’ in modi e gradi diversi nel corso della sua esistenza. Tuttavia sono proprio le modalità concrete e il grado di tale condizione a determinare nel tempo l’identità biografica di ciascuno. Il caregiver ripianifica la propria vita quotidiana in relazione all'impegno di cura e vede contratto sensibilmente il tempo a sua disposizione per la cura di sé e il tempo libero. La situazione si aggrava notevolmente laddove il caregiver venga investito da impegni lavorativi differenti dal programmato, da difficoltà economiche improvvise, da problemi di salute o famigliari, oltre che, da non sottovalutare, difficoltà relazionali, pregresse o intercorse, con la persona da assistere che possono intaccare la motivazione e il livello di gratificazione. Le molteplici dinamiche che possono interferire in questo complesso lavoro di cura richiedono adeguate valutazioni e sostanziali supporti per arenare il rischio del familismo ambivalente e la pericolosa scivolata nel burn out Se quindi consideriamo che la persona vive la sua vita attraverso un corpo, coesistendo con altri uomini e aspirando ad una vita giusta, i modi e i gradi che declinano la vulnerabilità possono essere riconosciuti all’interno di tre dimensioni contenitive del vivere: la vita sociale, la corporeità, la vita morale (P. Raciti, Le dimensioni della vulnerabilità e la vita buona: un’introduzione ai concetti, in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, 2009, 11, 1).
Questa triplice dimensione viene a strutturarsi attraverso i principi affermati ai sensi degli artt. 2 e 3 della Costituzione, nel legame tra personalismo, dignità ed eguaglianza, che anima la nostra Carta fondamentale, la quale indicando nella persona umana – intesa quale homme situè – un valore etico in sé, pertanto vieta ogni strumentalizzazione della stessa per un fine eteronomo e assorbente la sua identità ( M. Ainis, I soggetti deboli nella giurisprudenza costituzionale, in Aa.Vv - http://www.cendonpartners.it/soggetti-deboli - http://www.giappichelli.it/index.php?znfModule=public&znfAction=showArticolo&id=3211 )
Dall’intreccio fra tutti i richiamati e fondamentali principi deriva, dunque, l’asserzione generalmente condivisa secondo cui «il senso della dignità umana è (…) che ogni uomo, in qualunque posizione sociale si trovi inizialmente, deve essere messo in grado di avere pari opportunità di autorealizzazione e, quindi, pari opportunità di godere effettivamente delle libertà costituzionalmente garantite» (A. Baldassarre, Diritti inviolabili, in Enc. giur., XII, 1989, 1), siano esse di carattere civile, sociale o politico.
In tale contesto si inserisce quindi l’intervento solidaristico e sociale esclusivamente in funzione della persona e del suo sviluppo, avendo a riferimento il limite del rispetto della stessa, quale soggetto morale, avendo presente tuttavia che «non poche fra le prerogative dei soggetti deboli appaiano tali da dover essere formalmente atteggiate (…) come veri e propri “diritti al diritto”, ossia come pretese del titolare a venire accortamente affiancato, nella vita di ogni giorno, da chi sappia all’occorrenza aiutarlo ad esercitare lui stesso i poteri e le facoltà che gli competono e a ritrovare, nella misura del possibile, il gusto e il desiderio di questo esercizio» (P. Cendon, Il libro settimo del codice civile. Il diritto dei soggetti deboli, in Pol. dir., 1990, 142 ).
In ciò si esprime, al tempo stesso, il bisogno della persona a non essere lasciata sola, in balia di sè stessa; la necessità che qualcuno si prenda cura delle possibilità esistenziali del soggetto in condizione di rischio e fragilità, rispettando comunque l’imperativo di salvaguardarne e promuoverne l’autonomia (Come nota suggestivamente Minkowski «accompagnare chi è in transito significa tenergli la mano per compensare un passo incerto, aiutarlo a pensarsi in un altrove esistenziale dove sia più dignitoso e soddisfacente vivere, mantenere aperte più strade affinché chi è in cammino possa scegliere la propria, aprire spazi di pensabilità non solitaria dell’avvenire. E pensare l’avvenire è pensare a un orientamento nel tempo che consenta all’avvenire di aprirsi davanti a noi»E. Minkowski, Il tempo vissuto, Einaudi, Torino, 1971, 38-39).
Al caregiver si richiede pertanto di assistere senza sostituire, ovvero, in una parola, di compensare la diversità senza negare la dignità della persona: in tal modo, superando le fragilità e gli ostacoli di ogni sorta, si consegnano all’individuo gli strumenti necessari a provvedere da sé ai propri bisogni, rendendolo capace sia di individuare e stabilire criteri di priorità, sia di azioni concrete per soddisfare bisogni e realizzare obiettivi (V. Iori, L. Mortari, Per una città solidale. Le risorse informali nel lavoro sociale, Unicopli, Milano, 2005, 31).
Occorre poi rammentare che il diritto all’assistenza, se per un verso rappresenta l’espressione del diritto fondamentale alla salute, dall’altro, esso consente di enucleare ulteriori diritti, apparentemente mediati, che a diverso titolo costituiscono il presupposto fondante di quello all’assistenza: si tratta in particolare di quei doveri di solidarietà morale e materiale che intessono la trama del nostro ordinamento e che sono rivolti principalmente verso la persona fragile, senza tuttavia trascurale coloro che, nel contesto familiare, gli prestano assistenza.
Poiché la condizione di dipendenza inevitabilmente incide sulla condizione esistenziale e sui legami più profondi e dal momento che la cura di una persona dipendente obbliga moralmente il soggetto ‘curante’ a dare certe priorità al benessere della persona di cui è responsabile, è necessario riflettere ed elaborare una concezione pubblica e azioni/pratiche istituzionali che siano in grado di perseguire il triplice obiettivo di trattare in modo equo coloro che prestano lavoro di cura, prestare cura ai soggetti dipendenti e rispettare le relazioni di dipendenza nelle quali crescono e fioriscono fondamentali legami umani (Un riferimento, nel contesto dell’etica della cura, è l’opera di E. Feder Kittay, La cura dell’amore. Donne, uguaglianza e dipendenza, VitaePensiero, Milano, 2010).
In tal senso il diritto di prestare cura:
a) è volto a protegge l’espressione e la manifestazione di un’attitudine alla cura consentendo l’impegno in pratiche di cura verso i soggetti deboli: i) che dipendono da un altro per poter soddisfare i loro bisogni essenziali per vivere e fiorire, cosa che non possono fare da soli; ii) il cui benessere sta a cuore alla persona che si prende cura di loro, indirettamente, perché il senso di benessere di chi presta cura viene ridotto in modo consistente quando le persone fragili non ricevono assistenza adeguata.
b) diviene effettivo solo nella misura in cui consente al care giver di rimanere persona, ovvero di poter continuare a conservare la propria autonomia, dignità e coltivare il contesto relazionale in cui è inserito. Il lavoro di cura è infatti, di per sé, logorante e tende ad annichilire coloro che lo prestano, assorbendo la persona nella funzione strumentale che essa viene a svolgere.
Sicchè, per rendere effettivo il diritto alla cura, è necessario che un soggetto terzo, lo Stato, gli enti locali e il terzo settore (meglio se in rapporto sinergico fra loro) offra, a sua volta, supporto ed assistenza a chi si prende cura delle persone dipendenti. Il lavoro di cura ricomprende infatti anche certe pratiche di cura, in particolare quelle che vengono incontro ai bisogni, necessità ed aspirazioni che sono una diretta conseguenza del legame con la dipendenza e sono, per lo più, lavori che richiedono contatto diretto: vestire, dare da mangiare, mantenere l’igiene, accudimento e socializzazione, e al tempo stesso rispondono a domande emotive che si accompagnano questa condizione di bisogno. È necessario riconoscere che una precondizione per rendere il lavoro di cura sostenibile è data dalla soddisfazione di bisogni che sono anch’essi parte dell’attività di cura, ma non di quella diretta, semmai di quella indiretta che coglie il bisogno che il caregiver che opera con persone non autonome ha di qualcuno che provveda ad aiutare sia la persona dipendente sia lui stesso, in modo che entrambi possano sopravvivere e fiorire (Secondo una ricerca del  Censis, nel caso delle demenze, risultava che i parenti che si prendono cura di congiunti malati sono le “seconde vittime” della malattia: il 53% lamenta un sonno insufficiente; i 2/3 stanchezza; 1/3 effetti negativi sul proprio stato di salute in generale; le funzioni immunitarie sono ridotte, così come la attività fisica e quella sociale; l’alimentazione e la cura per la propria salute sono trascurate; evidenti risultano essere le correlazioni con alti livelli di stress, disturbi fisici e psicologici (ansia e depressione), e con elevato consumo di farmaci psicoattivi(quasi 3/4); tanto che vi sono dati che suggerivano un maggiore rischio di mortalità.).
Si deve sottolineare che il carico sopportato dal caregiver dipende ovviamente da tanti fattori, tra cui quelli del contesto in cui e con cui avviene questa cura, compreso l’avere o meno una rete informale di riferimento:

«le diverse tipologie di sostegno presenti sul territorio e (...) a disposizione delle persone con disabilità e delle loro famiglie (…) riguardano le pensioni di disabilità, i sostegni di tipo formale sociosanitari erogati dagli Enti Pubblici, i sostegni privati ed i sostegni erogati dai Comuni in termini di interventi e servizi sociali (…) Le differenze più rilevanti delle politiche di welfare delle amministrazioni comunali riguardano le dimensioni dell’offerta socio-assistenziale e l’analisi della spesa sociale evidenzia un gradiente Nord-Sud a
svantaggio delle regioni meridionali. L’analisi del ricorso agli aiuti formali ed informali non evidenzia uno specifico gradiente territoriale, ma mostra un ruolo molto attivo della rete informale. Gli aiuti forniti dalla rete informale, infatti, sono quelli a più ampia diffusione a livello nazionale. Il 31% delle famiglie riceve questo tipo di supporto, mentre solo il 15% riceve un aiuto dalla rete formale di tipo pubblico cosi come da quella di tipo privato» (T. Sabetta, Sintesi-rapporto Osservasalute 2009. Stato di salute e qualità dell’assistenza nelle Regioni italiane. Rapporto Osservasalute 2009, in www.osservasalute.it ).

Non ci si può nascondere che la realizzazione di tali obbiettivi trova due limiti che in genere caratterizzano le nostre politiche pubbliche di welfare: un primo riguarda la difficoltà della integrazione tra sociale e sanitario, l’altro il dare “visibilità” alle persone nelle loro specificità costitutive e quindi nella loro (mancanza di) uguaglianza di dignità/libertà/futuro (ovvero quel fare parti uguali tra diversi, di cui parlava don Milani) M. Campedelli, M. Valerio, Politiche per gli anziani: uscire dai luoghi comuni, in Oggi, Domani, Anziani, 2010, 2, 17 ss.
Proprio per questo è necessario cambiare paradigma interpretativo nell’approccio al tema e, ricondotte le problematiche entro il contesto assiologico personalistico che anima la nostra Costituzione (  Il principio personalista, dunque, «ispira la Carta costituzionale e pone come fine ultimo dell’organizzazione sociale lo sviluppo di ogni singola persona umana», vietando ogni strumentalizzazione di quest’ultima per alcun fine eteronomo; concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo, e non viceversa, e «guarda al limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive» Così Cass., sez. I civ., sent. 16 ottobre 2007, n. 21748 (“caso Englaro”), in www.cortedicassazione.it, par. 6.1 del Cons. dir. ), si deve sancire che non è più ammissibile trattare il lavoro di cura alla stregua di una merce come qualsiasi altra. La cura, quando meritevole di questo nome, generalmente implica un legame emotivo tra la persona che presta cura e un altro individuo, legale che spesso serve come “motivazione intrinseca” - oltre la compensazione materiale – per motivare al lavoro. Quindi, anche quando chi presta cura è pagato per farlo, non si tratta di una semplice trasmutazione dell’amore in oro. Da dove viene questa motivazione intrinseca quando il lavoro di cura non emerge dai legami intimi ma inizia da una transazione materiale? Dallo stesso lavoro di cura, cioè dal legame che si forma nel processo del dedicare tempo e attenzione al fine di assicurarsi del benessere di un altro, e dalla risposta percepita proveniente dalla persona cui si presta cura che le attenzioni sono ricambiate.  
Poiché la motivazione per la cura tende a derivare da legami affettivi più che da ricompense estrinseche, spesso chi presta cura svolge il proprio lavoro in cambio di una retribuzione relativamente bassa, o perlomeno più bassa del suo valore sociale reale. Tale condizione influisce direttamente sulle condizioni di vita del prestatore di cura, che, nell’immediato percepisce e può fruire di risorse limitate e, in termini di prospettiva, si verrà a trovare privo di un adeguata copertura pensionistica ed assistenziale.
L'Italia è infatti carente di una politica nazionale capace di fornire adeguato sostegno al care giving famigliare, ma fornisce esclusivamente risposte parcellizzate non in grado di fornire risposte adeguate e compiute ad un fenomeno in costante crescenza.
Tra gli strumenti esistenti possiamo contemplare i titoli sociali ( assegni di cura e voucher) erogati dalle amministrazioni locali in relazione alle capienze del Fondo Nazionale Politiche Sociali allo scopo di fornire un supporto economico a quelle famiglie che decidono di curare il proprio congiunto a domicilio.
Altresì possiamo contemplare l'indennità di accompagnamento quale strumento di sostegno al reddito erogato mensilmente a favore dell'invalido civile che, a causa della sua condizione sanitaria, necessita quotidianamente di un'assistenza continuativa.
È comunque necessario ricordare che l'indennità di accompagnamento non prevede una espressa formalizzazione in relazione al lavoro di cura, di conseguenza non è formalizzabile quale indennizzo all'assistenza famigliare o professionale prestata, ma si identifica come un mero trasferimento universale volto a compensare genericamente i costi dell'assistenza.
In considerazione della mobilitazione di risorse che l'indennità di accompagnamento pone in essere nell'intero comparto socio assistenziale ( 48% delle risorse) la genericità della sua erogazione potrebbe trovare adeguata canalizzazione nel riconoscimento del lavoro di care giving.
Non si sta discorrendo peraltro di un fenomeno marginale (Si pensi che se i familiari che assistono a casa i propri cari non-autosufficienti smettessero improvvisamente di farlo, la spesa per l’assistenza dovrebbe sostenere il peso di 900 milioni di euro in più (Rapporto Fondazione Zancan, 2010) se è vero che in Italia, secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’Istat, le persone non-autosufficienti, che hanno assistenza formale o informale da parte di caregivers, sono 2.615.000 di cui ben 2 milioni persone anziane. Si tratta di persone che riferiscono una totale mancanza di autonomia per almeno una delle funzioni che permettono di condurre una vita quotidiana normale e, se si considerano anche le persone che hanno bisogno di aiuto, anche in parte, per svolgere attività essenziali come alzarsi da letto o da una sedia, lavarsi o vestirsi, il numero sale fino a quasi 7 milioni, circa il 13% dell’intera popolazione.
Ampliare i diritti, riconoscere garanzie e strumenti di flessibilità tra lavoro, vita e impegni di cura diviene quindi un imperativo categorico in vista di una riforma del welfare in senso circolare, in cui alla verticalità statalista e alla orizzontalità del welfare mix privatizzatore (Come è noto, il welfare mix si avvale dei “quasi mercati” quale strumento per abbattere gli sprechi, razionalizzare i costi e innalzare il livello di efficienza. Tuttavia questo modello fallisce laddove pensa di far dipendere il soddisfacimento dei bisogni di welfare dei cittadini di una società che progredisce dalle risorse che l’ente pubblico riesce a mettere in campo con la tassazione – sia pure fortemente progressiva – nella misura in cui l’esito finale non potrà che essere l’abbandono dell’universalismo in favore di programmi di tipo selettivistico), si affermi una visione di amministrazione e programmazione condivisa dei servizi e dell’assistenza sociale che coinvolga lo Stato, gli enti locali, il Terzo settore e gli stessi cittadini (In questo senso S. Zamagni, L’economia del bene comune, Città Nuova, Roma, 2007. L’idea centrale è che non solo l’ente pubblico, ma tutta la società deve farsi carico del welfare. E ciò a partire dalla considerazione che i portatori di bisogni sono anche portatori di conoscenze e di risorse. Duplice la conseguenza che deriva da un tale cambiamento: da un lato, l’ente pubblico non può continuare a pensarsi come unico ed esclusivo titolare del diritto-dovere di erogare servizi di welfare e, specialmente, del potere di definire da solo i modi di soddisfacimento dei bisogni individuali, dall’altro lato, gli enti del Terzo settore devono cessare di rappresentarsi come soggetti del parastato oppure come soggetti solo funzionali alla filantropia d’impresa. Al contrario, essi devono mirare a uno status di completa indipendenza – che è cosa ben diversa dalla separazione – sia dalla sfera pubblica sia da quella del privato commerciale.)
Né si potrebbe far leva, per negare il riconoscimento di diritti ad una fascia tanto ampia di popolazione, ed in costante crescita, sulla carenza di risorse pubbliche, laddove imprescindibile appare, anche alla luce della consolidata giurisprudenza costituzionale, la garanzia del contenuto essenziale dei diritti sociali. Infatti, le difficoltà delle finanze pubbliche non potrebbero alterare, di per sé, il significato delle norme costituzionali sui diritti a prestazione: anche in questo caso infatti il livello minimo di risorse necessario ad ogni persona per condurre un’esistenza che possa essere considerata conforme a dignità (alla stregua delle convinzioni culturali date) continuerebbe ad essere costituzionalmente richiesto e dovuto.
In conclusione, poiché nessuno di noi nasce fungorum more e non può contare sulla certezza di una condizione di perenne perfetta salute e autonomia, la nostra società non può riprodursi, né mantenersi, senza attività di cura nei confronti dei soggetti fragili (bambini, anziani non più indipendenti e disabili gravi). Per questo è necessario delineare un modello che tenga conto delle conseguenze derivanti dal carattere asimmetrico e non egualitario delle relazioni di cura, un modello che sia attento non solo alle questioni di equità, ma anche alla dimensione della relazione e del legame, che integri, insomma, giustizia ed etica della cura.
In questi termini il sostegno a chi presta cura alle persone dipendenti è un obbligo della società che deriva dalla solidarietà propria della nostra comune condizione umana, dal principio di eguaglianza che connota tutti gli ordinamenti costituzionali democratici e dal principio di pari dignità come rispetto verso il prossimo e come forma di legame di reciprocità.

I caregivers: uno sguardo alle esperienze europee.

L’invisibilità forzata – a differenza che in altri paesi in cui la legislazione sulla non-autosufficienza riconosce una particolare condizione professionale ai care givers, spendibile anche una volta terminato l’impegno con i propri congiunti – in cui sono costretti coloro che prestano assistenza ai familiari non autosufficienti non permette di valorizzare il sapere e le esperienze di cura acquisite, spesso notevoli e comunque indispensabili per una qualità della vita dignitosa di chi è assistito.
Nonostante le dichiarazioni programmatiche, purtroppo, l’offerta pubblica ha continuato a orientare le risorse finanziarie riproponendo lo schema tradizionale polarizzato tra l’istituzionalizzazione del portatore di bisogno e la delega alla famiglia  (Su quali sostegni e servizi di supporto possono contare le famiglie italiane impegnate su questo fronte? La normativa vigente (in particolare attraverso le leggi 104/1992, 335/1995 e 53/2000) riconosce anzitutto periodi dipermesso retribuiti per il carer che lavora. Diversi sono, inoltre, i sostegni monetari introdotti (a livello nazionale) in forma di pensioni di disabilità, indennità di accompagnamento e sgravi fiscali, nonché (più recentemente e a livello regionale e locale) assegni di cura e buoni servizio. Benché quasi sempre rivolti all’anziano, questi strumenti finiscono con l’esercitare un effetto di sollievo anche nei confronti dei famigliari maggiormente impegnati nella sua cura, sebbene non vada trascurato il fatto che questa tipologia di aiuti trasferisce sugli utenti l’onere di gestire l’assistenza, rischiando pertanto di accentuare le differenze tra coloro in grado di organizzarsi adeguatamente e quanti invece non ci riescono. Ciò di cui tuttavia i carer italiani sembrano maggiormente soffrire è la carenza di adeguati servizi “di sollievo”, come evidenziato dal fatto che nel nostro Paese appena il 3,5% di essi dichiara di farne uso (contro l’oltre 20% registrato in paesi come la Germania, la Svezia e il Regno Unito), prevalentemente in forma di centri diurni (con finalità parallele di servizio all’anziano/disabile e sollievo al caregiver), gruppi di supporto o auto mutuo aiuto, consulenza e training ). Questo approccio non riesce a riconoscere pari dignità, e adeguate risorse, alle situazioni intermedie in cui rientrano una gamma infinita di stati di bisogno, dalla socializzazione, fino ai problemi di dipendenza anche acuta. Tale situazione ha creato le condizioni per lo sviluppo di un mercato dei servizi sociali in cui le famiglie si trovano sole, e spesse volte impreparate, dovendosi far carico degli oneri assistenziali in prima persona o ad acquistare i servizi più diversi passando dall’offerta delle case di riposo accreditate fino alle collaborazioni domestiche a bassa qualificazione con contratti al ribasso e in nero.
Così, in Francia ci sono due tipologie di supporto assicurativo dedicate ai caregivers familiari. La prima, un’indennità  giornaliera di presenza (allocation journalière de présence parentale – AJPP disciplinata dal decreto n. 2006-658 del 2 giugno 2006), è attribuita al genitore che ha la cura di un figlio di età inferiore ai 20 anni. In questo caso il bambino deve avere una malattia, una disabilità o aver subito un’infortunio di particolare gravità che rende indispensabile la presenza costante e vincolante del genitore per la cura. Il destinatario riceve per ogni giorno una indennità giornaliera fino ad un massimo di 22 giorni al mese. Se il familiare è un dipendente, è necessario richiedere un permesso di aspettativa al proprio datore di lavoro. Se il familiare è disoccupato il compenso AJPP, sospenderà l’indennità di disoccupazione su richiesta del Caf. Il destinatario riceve un conto di credito per 310 giorni di congedo, compensati su base giornaliera. L’importo dell’indennità giornaliera di presenza dei genitori va dai € 42,20 ai € 50,14 a seconda delle esigenze di sostegno del bambino. L’assegno è concesso per un periodo massimo di 3 anni, che possono essere prorogati di sei mesi in sei mesi per un periodo pari alla durata prevista del trattamento stabilita dal medico del bambino. Se durante l’esame semestrale, il medico ritiene che il bambino è guarito o che il trattamento è completato, il diritto alle prestazioni è sospeso, ma può essere riattivato in caso di recidiva o di reiterazione.
La seconda è l’Assurance vieillesse volontaire des tierces personnes bénévoles – APF  ove il beneficiario è una persona che volontariamente svolge i compiti e gli obblighi di assistenza  ad un membro della sua famiglia disabile o invalido (coniuge, ascendente, discendente, o un affine fino al 3° grado) e può godere di un’assicurazione facoltativa per la vecchiaia e la copertura infortunistica dei rischi d’invalidità. Inoltre con la  Circolare min. 81/3SS § III del 1981/08/01, ai sensi dell’art. 9 del decreto 80-541 del 4 luglio 1980, è possibile riscattare i contributi, per le persone che possono documentare lo svolgimento delle  funzioni di cura  senza alcun compenso ad un coniuge o un membro della famiglia infermi o disabili, prima dell’approvazione di questa legge, che possono acquisire, per il periodo o i periodi in cui essi esercitavano tale attività, i diritti di assicurazione volontaria a copertura del rischio per il pagamento dei contributi pensionistici.
In Germania, la Pflegeversicherung rimane ancorata ai principi assicurativi, in continuità con il sentiero istituzionale (path dependency) storicamente determinatosi nelle politiche di welfare bismarckiane. Tuttavia per alcuni versi essa ha altresì indotto rilevanti innovazioni. L’introduzione della nuova assicurazione sociale ha permesso al comparto dei servizi sociali per gli anziani di uscire dal cono di residualità entro cui si erano evoluti storicamente, estendendo all’intera popolazione la copertura dei servizi, sia a coloro che contribuiscono direttamente, sia ai loro familiari. Inoltre, se per tutte le prestazioni assicurate è stato previsto un tetto massimo di spesa, che soprattutto nei casi di ricorso ai servizi residenziali richiede un concorso crescente di spese a carico dell’utente non autosufficiente, l’accesso alle prestazioni riguarda tutti i soggetti non autosufficienti in base all’intensità del loro stato di bisogno.
Il principio della politica socio sanitaria tedesca è racchiuso in una unica parola chiave “Haus vor Heim” (casa prima casa) e quindi si realizza principalmente con due obbiettivi principali: a) le persone bisognose di assistenza dovrebbero, per quanto ragionevole e possibile, essere curati a casa (die Pflegebedürftigen möglichst lange in ihrer häuslichen Umgebung bleiben können); b) l’assistenza domiciliare dovrebbe, per quanto ragionevole e possibile, essere data da caregivers familiari o almeno da loro sostenuta.
Comunque sono molteplici gli aspetti di supporto dato all’intera famiglia che presta cure e assistenza, e non soltanto nell’evitare ai familiari la perdita del lavoro, anche mediante accordi personalizzati con il datore di lavoro, favoriti dal governo, per permettere un’adeguata organizzazione della cura senza rischiare il posto di lavoro.  Questo perché, anche quando si parla di assistenza a lungo termine, sono sempre garantiti una serie di servizi di assistenza domiciliare oltre quelli dati dal supporto familiare. Senza entrare nei particolari, si può rammentare che vari sono gli strumenti previsti dall’ordinamento, ovvero benefit in kind (prestazioni in natura), informazioni sui servizi e modalità di accesso, consulenza o supporto psicologico attraverso gruppi di mutuo auto-aiuto e la formazione mediante corsi specializzati sia a livello centrale che nella stessa casa della persona bisognosa di cura. Inoltre i caregivers familiari se forniscono assistenza per più di 14 ore alla settimana sono soggetti a contributi previdenziali attraverso l’assicurazione Care Insurance Fund  che è legata al destinatario delle cure e si fa carico dei contributi pensionistici per assistenza. 
Bisogna dire che la legislazione tedesca si discosta nettamente rispetto all’omologa francese. In Francia il riconoscimento formale del lavoro di cura è infatti ristretto alla possibilità di trasferire parte della somma ricevuta al familiare, che non sia tuttavia il coniuge o il convivente. Inoltre non è prevista alcuna copertura previdenziale per il familiare che presta assistenza. In Germania invece non solo il riconoscimento giuridico e economico è esteso al trattamento pensionistico, ma sono molto meno rigidi i controlli circa l’effettivo utilizzo delle somme erogate. Se quindi, nel caso dell’assicurazione sociale tedesca, l’intervento sociale appare più direttamente orientato a accompagnare, se non favorire la presa in carico familiare, anche attraverso la promozione del part-time, come modalità di combinazione prevalente per i caregivers tra impegni di cura e accesso al lavoro formale; in Francia il sostegno economico al caregiving non solo è più controllato dal punto di vista delle condizionalità poste dalla legislazione, ma soprattutto rientra primariamente nella politica di creazione di occupazione, ancorché a bassi salari, nei servizi sociali.
In Inghilterra, rispetto al panorama dei welfare regimes europei, il sistema è stato tradizionalmente caratterizzato da un’accentuata residualità delle prestazioni sociali, da un limitato intervento del pubblico e da una generale tendenza a favorire soluzioni di mercato.
Per quanto riguarda la posizione del familiare invece, il dato maggiormente interessante ha a che fare con la presenza di servizi e trasferimenti dedicati al singolo caregiver, riconosciuto come soggetto giuridico destinatario di prestazioni assistenziali indipendentemente dalla condizione di non autosufficienza dell’anziano cui offre assistenza. Con l’approvazione del Carers (recognition and Services) Act nel 1995, la figura del caregiver è stato giuridicamente riconosciuto. In base a questa legge, e successivamente con il Carers and Disabled Children Act del 2000, il familiare si è visto riconoscere il diritto alla valutazione della propria condizione di bisogno assistenziale indipendentemente da quella della persona assistita, configurando in questo modo un diritto soggettivo autonomo slegato dalla condizione del soggetto dipendente. I familiari possono beneficiare sia di sussidi atti a favorire brevi interruzioni dall’attività assistenziale, sia di trasferimenti ad hoc (come il caso del carers allowance), finalizzati a promuovere la combinazione tra partecipazione al mercato del lavoro e coinvolgimento nell’attività assistenziale al domicilio. Il tratto comune a questi istituti è ancora il carattere residuale dell’impianto regolativo che li governa. Questo istituto appare infatti finalizzato soprattutto a sostenere le situazioni di presa in carico familiare più gravose, in presenza di bassi redditi percepiti da lavoro.
Volendo riassumere quanto esposto entro modelli, se ne possono delineare due: il primo macro-modello fa riferimento ai “regimi di cura” del Regno Unito e dei Paesi scandinavi. Essi sono accomunati dalla condivisione di una comune radice beveridgiana - ancorché di stampo più egualitario nel primo caso, residuale e means-tested nel secondo - che si traduce per i caregiver familiari in interventi ad hoc, sia in servizi che in trasferimenti, in quanto soggetti titolari di diritti assistenziali individuali, indipendentemente dalla condizione di non autosufficienza dell’anziano cui viene offerta assistenza.
Il secondo macro-modello fa riferimento all’area dell’Europa continentale, precisamente a Francia e Germania. Questi due paesi sono accomunati dalla presenza di un sistema di protezione sociale per i caregivers di tipo indiretto. La figura del caregiver non viene riconosciuta dal sistema di offerta come titolare di diritti individuali, ma viene protetta indirettamente attraverso le risorse conferite all’anziano non autosufficiente, in questo caso il principale soggetto titolare del diritto all’assistenza.

La legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali – Legge 328/2000- ha riaffermato marcatamente il ruolo centrale della famiglia da sempre connotante il welfare italiano, tuttavia continuano a mancare indicazioni concrete su forme di sostegno importanti e soprattutto continuative, dunque non assoggettabili ad eventuali carenze di risorse poiché ciò andrebbe ad intaccare la garanzia del contenuto essenziale dei diritti sociali ( come ribadito da consolidata giurisprudenza costituzionale).
È evidente, rispetto a quanto fin qui detto, che la prospettiva da disegnare all'orizzonte è quella definita del “dual focus of caring” ovvero la valutazione globale dei bisogni di chi cura e di chi è curato.
Una siffatta valutazione olistica non può prescindere da una co progettazione che partendo da tutti gli interessi coinvolti consideri il care giver quale soggetto attivo e protagonista del progetto di cura e non quale mero esecutore di prestazioni non derogabili in virtù di una logica morale o economica.
Il familismo ambivalente potrà dunque essere arginato grazie anche alla piena realizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale, previsto e auspicato tanto a livello normativo quanto di politiche sociali .
Un principio che troverà piena realizzazione solo quando si creeranno validi ed efficaci canali di confronto e dialogo tra l'azione pubblica e le reti famigliari chiamate ad esprimere le esigenze effettive per poter riorientare le azioni pubbliche in un'ottica di implementazione delle risorse e delle potenzialità .
L'orientamento innovativo non può prescindere dalla promozione dell'empowerment delle risorse famigliari, sostenendole e ripensando il proprio intervento non in un'ottica compensativa post collasso, ma ponendosi quale facilitatore del potenziamento delle risorse presenti e imprescindibili in un sistema che deve vedersi orientato sempre più nel principio sussidiario.




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